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Alla ricerca della mineralità del vino perduta…

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Alla ricerca della mineralità del vino perduta…

Dopo un periodo di indubbia fama, la “mineralità” come descrittore gustativo, ma soprattutto olfattivo, non ha praticamente più sostenitori nel mondo del vino. O meglio, ci si sta uniformando alle evidenze scientifiche, di base piuttosto semplici, legate al fatto che i minerali, elementi inorganici, di per sé non hanno alcun gusto o profumo.

Eppure… eppure l’argomento è degno di studio perché dimostra una mancanza, non è facile infatti sostituire ciò che i degustatori fino ad alcuni anni fa definivano come “minerale”. Anche perché, e qui comincia la difficoltà del compito che ci siamo preposti, con lo stesso termine si sono in passato definite due tipologie di profumi piuttosto distanti.

Mineralità del vino e scuole di pensiero

Le “scuole di pensiero” sulla mineralità del vino si sono distinte tra chi spiegava il sentore con una assimilazione alla “pietra focaia“, dunque pirite e per questo decisamente vicino ai sentori di ridotto prodotti dalle scintille, e chi invece puntava su una equivalenza con aspetti di purezza nei profumi e freschezza, perciò ben più “aperti”.

Infine alcuni studi hanno addirittura collegato l’uso del termine minerale ad una assenza di profumi, dimostrando come in alcuni panel proprio questo aspetto di sottrazione sia diventato la base di partenza per coniare un termine nuovo.

Quello che c’è da sottolineare, ancor prima di addentrarsi in discorsi più o meno scientifici sulle percezioni sensoriali, è che in nessun caso è comunque riscontrabile un collegamento tra la presenza di minerali nel terreno, men che meno nell’aria, e analoghi sentori nel vino. In passato, infatti, alcuni si erano spinti a spiegare la mineralità di un vino in base alla conformazione del suolo sul quale venivano coltivate le uve.

Ancor più suggestiva l’immagine che vuole trasferire nel bicchiere le brezze marine, come se quella sapidità fosse in qualche modo consustanziale ai sentori minerali. Che poi ci sia un legame non è escluso, in effetti di studi in materia ce ne sono molteplici e nessuno con certezze assolute, ma forse sarebbe meglio a quel punto parlare di sapidità.

Tornando dunque all’evoluzione delle due scuole di pensiero citate non possiamo non partire dall’Alsazia e dal Riesling. Il vino bianco icona per antonomasia grazie alle sue grandi terziarizzazioni, i sentori di idrocarburi e – appunto – quei principi di “pierre a fousil”, pietra focaia, che sono alla base di chi interpreta la mineralità con questi accenni di riduzione di stampo sulfureo.

Il descrittore è poi passato ad alcuni bianchi di Borgogna, diffondendosi a quel punto in maniera ancora più ampia, fermo restando il legame con la pietra focaia. Il racconto della mineralità è diventato dunque quello dei vini bianchi da lungo affinamento, complessi, spesso molto ricercati e dunque anche difficili da analizzare in panel ampi e non interconnessi. In pratica, come molte delle convenzioni del vino, si è creato forse, almeno in parte, un mito partendo da un piccolo errore di fondo.

Come detto, infatti, il presunto odore della pietra focaia non è dato dalla pietra in quanto tale, bensì dalle scintille create dallo sfregamento. La pirite altro non è che disolfuro di ferro, il quale se riscaldato sprigiona una miscela di solfuri, questi sì di grande impatto olfattivo, specificatamente di uova marce.

A parlare invece di vini puliti e incontaminati, come certi minerali appunto, sono stati soprattutto critici italiani, dando vita ad una interpretazione del descrittore di tutt’altra tipologia. In questo caso infatti a farla da padrone è la freschezza, per alcuni addirittura le note agrumate, insomma un registro olfattivo praticamente opposto a quello della pietra focaia.

Siamo ancora, soprattutto, nel regno dei vini bianchi, spesso del nord, con profili verticali, dritti come specifica qualcuno. La distanza dalla prima interpretazione è ancor più ampia se si pensa che, nel primo caso, la tendenza è quella di individuare il sentore minerale-solfuri in vini invecchiati, che nell’esplosione di sentori terziari ricomprendono anche questi ultimi.

Mentre nella seconda scuola di pensiero il minerale contraddistingue una nota di gioventù indelebile, una purezza che si protrae nel tempo e che rimane uguale a sé stessa come succede alle pietre appunto. Un concetto diametralmente opposto dunque, inconciliabile.

Se poi dall’olfatto passiamo al gusto, o comunque lo facciamo entrare nella nostra indagine, la faccenda si complica ulteriormente. Le sensazioni sapide si collegano subito, evidentemente, con i “Sali minerali” e in una degustazione non sempre è facile distinguere tra i vari sensi. Ecco dunque la facilità con la quale, spesso, i vini più sapidi (al gusto) vengono anche definiti minerali all’olfatto.

Gli studi sulla mineralità del vino

Un errore? Non in senso assoluto, specialmente se pensiamo che questa benedetta mineralità ancora non siamo stati capaci di definirla. Anche gli studi dei centri di ricerca più importanti del mondo, da Geisenheim in Germania all’università di Davis in California, passando per Praga, Bordeaux, Talca (Cile) e infine la Nuova Zelanda, non sono univoci e continuano ad alimentare una volta chi individua la mineralità nei composti solforati da invecchiamento e chi, invece, nella purezza e nella sapidità.

Tra tutti i progetti di ricerca sul tema è bene forse approfondire, anche per i forti legami con l’Italia, quello del professor Antonio Palacios dell’Università della Rioja. Gli studi condotti dal Laboratorio Excell Iberica, insieme ai risultati dei panel di degustazione organizzati da Outlook Wine (Barcellona), presentano diversi spunti interessanti e hanno dato vita ad una sperimentazione anche nei nostri territori.

La sfida è stata raccolta dalla Tebaldi, azienda veneta fondata da Marco Tebaldi che nel 2017 ha dato vita al progetto “Alla ricerca della mineralità” in collaborazione con il laboratorio Excell Iberica. L’idea è quella di unire i risultati degli studi sulla percezione della mineralità all’industria enologica, testando protocolli di vinificazione studiati appositamente.

L’esperienza italiana indagherà i diversi vitigni e le rispettive espressioni sul tema, portando ad un ulteriore perfezionamento la conoscenza del tema, si spera, oltre a condividere con una ampia platea di produttori i concetti chiave della mineralità, che riguardano anche il marketing.

In effetti mai un descrittore sensoriale tanto labile aveva avuto una ricaduta così pesante sul racconto del vino. Perché sulla mineralità di vini, vitigni e territori si sono costruite intere campagne di comunicazione e vendita. Il che deve far pensare, oltre a fornire una probabile spiegazione sul perché non si riesca a trovare una unità di intenti nemmeno nella sua opzione traslata, di semplice riferimento linguistico.

Rimane, dunque, come unica e valida affermazione sul tema quella del grande Denis Dubourdieu: “la mineralità è un descrittore sensoriale astratto e non può essere preso alla lettera”. Confortata da un altro studio, sempre francese, che ha inserito la provenienza dell’assaggiatore e il suo profilo psicologico come fattori determinanti per l’individuazione della mineralità.

Concludendo, la mineralità continua ad avvicinarsi sempre di più a quei “vini unicorno”, grandissimi ma irraggiungibili ai più, che sono al centro di una narrativa enologica poetica ma di scarso o nullo legame con la realtà.

Personalmente continuo a pensare che, come in altri aspetti della degustazione gusto-olfattiva e a maggior ragione quando non ci assiste la scienza, è più profittevole individuare un terreno comune, una convenzione alla quale rifarsi, piuttosto che rimanere divisi, spesso ostentando modelli opposti.

In ogni caso, sia ben chiaro, “chi vuol esser minerale, sia”!

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