La tutela delle denominazioni protette ha da sempre costituito un tema centrale della legislazione vinicola sia nazionale che, ancor prima, europea. Il nodo centrale della materia riguarda i presupposti che consentono ai produttori di poter utilizzare lecitamente le denominazioni protette e quando, al contrario, tale utilizzo costituisca un comportamento illecito.
Sul punto, le fonti normative che affrontano la questione sono da rinvenire nel disposto dell’art. 19, par. 3, Reg. CE 607/2009 [1], nonché nell’art. 27, comma 3 del nuovo Testo Unico del vino [2].
Ebbene, dalla lettura delle predette norme si ricava come il divieto non riguarda solo l’uso integrale della denominazione, bensì anche l’uso di parte di essa laddove tale porzione sia costituita da elementi caratterizzanti e distintivi della stessa denominazione. In buona sostanza, l’uso di parte della denominazione deve equivalere ed esplicare i medesimi effetti dell’uso intero della stessa.
Un caso piuttosto recente in cui è stato rilevato dalla giurisprudenza l’uso indebito della denominazione protetta è la celebre sentenza pronunciata nel 2017 dal Tribunale di Venezia nei confronti della società “Le Famiglie dell’Amarone d’Arte”; in quell’occasione, infatti, la predetta società avrebbe inserito illecitamente all’interno della propria denominazione sociale il termine “Amarone” ed in tal modo avrebbe indotto in errore il consumatore in ordine al soggetto deputato alla tutela della medesima denominazione (nel caso di specie, il “Consorzio per la tutela dei vini della Valpolicella”). Il Tribunale di Venezia aveva, pertanto, riconosciuto la violazione di legge e inibito alla società l’utilizzo nella propria denominazione sociale del termine “Amarone”, nonché qualsivoglia attività promozionale recante tale denominazione.
Ebbene, è evidente come tutto l’impianto normativo concernente le denominazioni protette sia orientato e rivolto in ultima istanza alla tutela del consumatore, al fine di scongiurare pratiche che possono generare confusione tra i consociati.
Occorre rilevare, peraltro, come la sentenza del Tribunale di Venezia offra un ulteriore ed interessante spunto di riflessione, che pare chiude definitivamente le porte a qualsiasi tipo di aggiramento della normativa: i giudici, infatti, hanno escluso la possibilità di utilizzare la denominazione protetta anche da parte di società di capitali composte da soci che singolarmente producono vini docg. Ciò sulla base del rilievo secondo cui tale compagini sociali avrebbero – in quanto società di capitali – personalità giuridiche distinte da quella dei singoli soci e come tali non sarebbero inserite nel sistema di certificazione e controllo del disciplinare di produzione.
[1] “La protezione di una denominazione di origine o di un’indicazione geografica si applica al nome intero, compresi i suoi elementi costitutivi, purché siano di per sé distintivi. Non sono protetti gli elementi non distintivi o generici di una denominazione di origine protetta o di un’indicazione geografica protetta”
[2] “Il nome della denominazione di origine o dell’indicazione geografica e le altre menzioni tradizionali alle stesse riservate non possono essere impiegati per designare prodotti similari o alternativi a quelli previsti all’articolo 26, né, comunque, essere impiegati in modo tale da ingenerare nei consumatori confusione nell’individuazione dei prodotti […]”.
Avv. Gabriele Brandi – www.dirittovitivinicolo.com