Dopo aver portato alla notorietà della comunità scientifica mondiale la Corvina, la varietà d’uva più rappresentativa dei vini rossi veronesi, grazie a importanti pubblicazioni firmate dall’università di Verona su riviste internazionali, un’altra pietra miliare è stata posta.
Un gruppo di ricercatori, coordinato da Giambattista Tornielli del dipartimento di Biotecnologie, ha chiarito i meccanismi genetici attivi nell’uva durante l’appassimento dimostrando che gli acini d’uva posti ad appassire dopo la raccolta non stanno semplicemente riposando. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Plant Physiology, tra le riviste internazionali più autorevoli in ambito vegetale.
Questi, infatti, sono intensamente impegnati a contrastare le condizioni avverse, in particolare la disidratazione e la conseguente eccessiva concentrazione dei succhi cellulari, oltre ad affrontare il naturale processo di senescenza a cui vanno incontro. Se le cellule dell’uva non attivassero questi meccanismi probabilmente morirebbero rapidamente. Dal punto di vista enologico, inoltre, proprio queste risposte attive sono responsabili delle trasformazioni che avvengono nell’acino (ad esempio a carico di polifenoli e aromi), indispensabili per raggiungere le caratteristiche qualitative finali ai fini della vinificazione.
Gli scienziati sono partiti dallo studio fisiologico e molecolare approfondito del processo di appassimento, pratica peculiare e di lunga tradizione nel Veronese per la produzione di vini di pregio come l’Amarone. Già studi precedenti avevano evidenziato che l’uva raccolta dalla pianta e messa a riposare nei fruttai non muore ma prosegue alcuni dei metabolismi iniziati con la maturazione e ne attiva di nuovi. Tuttavia si trattava di informazioni frammentarie derivate da lavori svolti ora sull’una ora sull’altra varietà e difficilmente ricomponibili in un quadro unitario ed esaustivo del processo di appassimento.
“La prospettiva che emerge dal nostro studio – spiega Tornielli – dimostra come l’appassimento non sia un semplice processo di disidratazione passivamente subito dall’uva ma come anzi vi sia un metabolismo attivo negli acini che modificano le proprie caratteristiche. La conoscenza del processo biologico dell’appassimento è quindi necessaria per definire rigorosamente le condizioni più adatte al raggiungimento degli alti standard qualitativi per la successiva vinificazione.
Tutto ciò però non avviene allo stesso modo in tutte le uve. La comparazione di varietà come Corvina, Sangiovese, Oseleta, Syrah, Merlot e Cabernet Sauvignon ha evidenziato che Corvina e, in misura minore, Sangiovese rispondono all’appassimento in modo nettamente più attivo delle altre”. Questi risultati sottolineano la peculiarità delle produzioni vitivinicole veronesi che si basano sulla Corvina, che non può essere sostituita da altre varietà per l’appassimento.
“Abbiamo applicato – afferma Sara Zenoni, ricercatrice di Genetica agraria e prima firmataria del lavoro – le tecnologie e le conoscenze più avanzate, sviluppate per la prima volta proprio a Verona nel nostro dipartimento, per l’analisi dell’espressione genica su larga scala (trascrittomica) e del profilo dei metaboliti (metabolomica). Abbiamo così potuto constatare che sono migliaia i geni che cambiano la loro espressione nel corso di un appassimento di tre mesi. Andando più nel dettaglio sull’identità dei geni e dei metaboliti coinvolti abbiamo ricostruito i processi metabolici fondamentali delle uve in appassimento. In particolare appaiono interessanti dal punto di vista enologico le grandi modifiche che riguardano i composti polifenolici e i composti ad impatto aromatico della famiglia dei terpeni, che avvengono solo se le uve rimangono ad appassire per tempi molto lunghi. Una stretta interazione con il mondo enologico sarà necessaria per definire l’impatto di queste trasformazioni sulla qualità del vino che ne deriva.
” Il lavoro è stato possibile grazie a una stretta interazione con alcune aziende vitivinicole del territorio veronese, in particolare l’azienda Masi Agricola e il suo Gruppo Tecnico. I risultati raggiunti dal team scaligero dimostrano come sia fondamentale la sinergia tra il mondo della ricerca e quello delle imprese, per poter sviluppare conoscenze scientifiche approfondite con un potenziale impatto applicativo. “Si tratta – aggiunge Tornielli – di un aspetto molto sentito dall’ateneo Veronese che da anni sostiene finanziariamente, attraverso il programma Joint Projects, progetti che prevedono un’interazione attiva con il territorio e il nostro studio è stato realizzato proprio nell’ambito di un progetto Joint Project.
DOI: https://dx.doi.org/10.1104/pp.16.00865
link della pubblicazione: http://www.plantphysiol.org/content/early/2016/09/26/pp.16.00865